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Oltre il Double Diamond

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C’è una parola che usiamo spesso nei contesti di innovazione, ma che raramente definiamo con chiarezza: discovery.
Negli ultimi anni, questa parola è diventata un contenitore ambiguo — a volte sinonimo di “inizio progetto”, altre di “fare ricerca”, per alcuni rappresenta il primo quarto del processo di design thinking, per altri è l’intero percorso di esplorazione e validazione.
Il problema è che quando il linguaggio è vago, anche le aspettative lo diventano. E nel lavoro sull’innovazione, l’ambiguità può essere utile nella fase esplorativa, ma è estremamente dannosa quando ostacola la collaborazione, le scelte operative o — peggio — il commitment da parte dei decision-maker.
Di questo parla l’articolo di Dan Hill (An evolution of the Double Diamond), in cui l’autore parte da una riflessione molto lucida: 👉 le parole che usiamo per descrivere il design influenzano la qualità (e l’impatto) del design stesso.

Il Double Diamond è un ottimo inizio. Ma spesso non basta più

Il Double Diamond, sviluppato nel 2004 dal British Design Council, ha avuto il merito enorme di rendere visibile il design come processo. Un linguaggio visuale semplice — due diamanti — per descrivere l’alternanza tra momenti divergenti (esplorazione) e convergenti (sintesi), lungo due fasi: problem setting e solution finding.
Ma oggi, nel mondo delle organizzazioni liquide, dei team distribuiti, dei progetti cross-funzionali e delle sfide complesse, serve qualcosa di più.
Hill lo spiega chiaramente: il rischio è che il modello collassi sotto il peso della sua stessa semplicità. Se tutto è “design”, se ogni inizio è “discovery”, allora non abbiamo più una mappa per orientarci, né un linguaggio condiviso per collaborare. E il design rischia di perdere il suo potenziale trasformativo, diventando un’etichetta generica, priva di direzione.

Reinventare il linguaggio del design: la metafora dell’espedizione

Il contributo più interessante dell’articolo di Hill è la proposta di un nuovo modello: un oggetto tridimensionale, costruito piegando il Double Diamond per formare una “tenda da spedizione”.
Una struttura temporanea ma solida, che rappresenta il processo di discovery come un viaggio in territori sconosciuti. Ogni faccia della tenda rappresenta un mindset fondamentale del processo esplorativo:
  • Identificare (problemi, bisogni, pattern nascosti)
  • Creare (idee, soluzioni, prototipi)
  • Sperimentare (testare, apprendere, fallire in fretta)
  • Valutare (etica, impatto, sostenibilità)
Ogni lato è anche una guida pratica, con attività collegate, strumenti da usare, domande da farsi. Il modello diventa così uno strumento operativo, oltre che un supporto di pensiero.
E qui entra in gioco il valore più grande di questa proposta: aiutare i team a parlarsi meglio. Perché la vera sfida oggi non è solo “fare innovazione”, ma costruire le condizioni per farla bene. Condizioni che richiedono allineamento, chiarezza, senso condiviso del tempo e delle priorità.

Perché le organizzazioni hanno bisogno di nuove mappe

La discovery non è solo una fase. È un mindset. È una capacità organizzativa. Ma è anche un terreno rischioso: si lavora nell’incertezza, si cambia spesso rotta, si fallisce (anche quando si impara). E in questi contesti, la mancanza di una grammatica condivisa frena gli investimenti, aumenta la diffidenza, e costringe i team a reinventarsi tutto da zero — processo, metodi, linguaggio, metriche.
Come dice Hill, “essere poco chiari su cosa sia la discovery rende l’investimento in innovazione meno probabile e più rischioso”.
Il Discovery Tent cerca di rispondere a questa esigenza. Offre una struttura flessibile ma concreta, che aiuta a:
  • facilitare il dialogo tra funzioni diverse (design, prodotto, business)
  • chiarire aspettative e risultati attesi nelle varie fasi
  • prendere decisioni consapevoli su cosa fare dopo
  • creare uno spazio sicuro per esplorare, senza perdere direzione

Il linguaggio come leva di leadership

C’è un altro punto fondamentale nell’articolo: il ruolo del linguaggio nella leadership creativa.
“Se voglio dirigere un team, devo sapere dove si trova e dove deve andare. E se voglio usare uno stile più da coach, ho bisogno di un linguaggio condiviso per fare domande, dare stimoli, sbloccare il potenziale.”
È un tema che chi lavora tra strategia, design e innovazione conosce bene.
Guidare non è (solo) indicare la rotta. È condividere le coordinate.
E in un mondo dove il lavoro è sempre più intangibile, astratto, distribuito, il linguaggio è lo strumento operativo più sottovalutato che abbiamo.

Serve un nuovo storytelling per il design

Dan Hill cita anche il Culture Web di Johnson e Scholes, sottolineando come gli elementi culturali di un’organizzazione — simboli, rituali, storie — siano cruciali per attivare il cambiamento. E come le storie siano il tessuto connettivo che dà senso agli strumenti, ai modelli, ai processi.
Il Discovery Tent funziona anche perché non è solo uno strumento: è una narrazione. Una storia da vivere e condividere nel team, che rende visibile l’esplorazione, il dubbio, la scelta, la direzione. Ed è solo dentro una buona storia che i processi organizzativi possono davvero attecchire.

Fare spazio per nuovi linguaggi

Il mio takeaway da questo lavoro? Che non basta aggiornare i processi, dobbiamo anche aggiornare il modo in cui li raccontiamo.
Perché se non troviamo nuove parole per descrivere l’incertezza, continueremo a combatterla con vecchie logiche.
E in un mondo dove la scoperta è ormai il cuore della strategia, non possiamo più permetterci un linguaggio impreciso.
📌 Il lavoro di Dan Hill è un esempio prezioso di design che non solo fa, ma riflette su come lo facciamo. L’articolo completo si intitola “An evolution of the Double Diamond” e lo trovate qui: https://danramsden.com/2023/08/17/an-evolution-of-the-double-diamond/
Buona navigazione (in mari in tempesta).