I social non servono a vendere, e quindi a cosa servono?
Ce lo stiamo chiedendo tutti, anche alla luce di alcune recenti dichiarazioni lette sul web: Bottega Veneta che lascia i social, Seth Godin che nuovamente si scaglia contro i social, ma chissà dove si trova la verità.
Ha fatto molto discute la scelta di Bottega Veneta di chiudere gli account social del brand, tuttavia da un analisi più approfondita emergono decisioni strategiche molto interessanti.
Mi ha molto colpito la dichiarazione di François-Henri Pinault CEO del Gruppo, circa il motivo della chiusura degli account: “L’obbiettivo è stato quello di permettere di interpretare i prodotti di Bottega Veneta senza veicolare parallelamente ulteriori messaggi attraverso un account ufficiale del brand”
Ancora: “Non si tratta di scomparire dai social network, ma semplicemente di usarli diversamente. Bottega Veneta ha deciso, in linea con il proprio posizionamento, di fare molto più affidamento sui propri ambassador e fan fornendogli il materiale di cui hanno bisogno per parlare del brand attraverso vari social network, lasciandoli parlare per il brand piuttosto che farlo da sé”
Anche Seth Godin nel suo recente libro (La Pratica) rincara la dose: “Messe al bando le degenerazioni social, ciò che resta è l’esperienza autentica del cliente, un mosaico di aspettative racchiuse nei suoi bisogni spesso disattesi e nel suo vissuto da ascoltare. Un percorso da intraprendere giorno per giorno, con costanza e senza sconti”
Interessante ciò che emerge: libertà quindi di interpretare del brand da parte dei consumatori nel tentativo di utilizzare diversamente le piattaforme social, cercando di far vivere un’esperienza autentica al cliente.
In rete si trovano opinioni contrastanti a riguardo, ma come dare torto all’imprese che ha investito per anni sui social dietro il consiglio (fatturato) del Guru™ di turno? Pensare a quello che un’impresa ha avuto indietro; manciate di like e tanto tempo e denaro investiti in un qualcosa che solo apparentemente potrebbe avvicinarsi ad essere una community fedele alla marca.
Le pratiche di Social Growh Hacker, portano sicuramente ad incrementare la fan base e magari contenuti virali ne incrementano anche l’engagement — ma la vera domanda è “a quale scopo?”
Ci diciamo sempre che i social non servono a vendere, e quindi a cosa servono?
Se non servono a vendere ma chiediamo alle aziende di investire migliaia di euro per creare e gestire una community di persone — che spesso non ha niente da spartire con il brand ed i suoi valori — allora a cosa servono?
Se questa community condivide solo l’ironia e la viralità dei post — ad esempio la Fan Page di Taffo — a cosa servono?
Forse i social sono un media di intrattenimento, in cui le persone possono parlare liberamente, sperimentare, co-progettare e vivere — anche — esperienza autentica con la marca? Forse.
Dove sta l’equilibrio tra investimento — perché di questo si tratta per un’azienda — e ritorno economico e di immagine? La questione (e la risposta) è molto controversa, il confine tra essere presenti a fianco del consumatore ed essere uno strumento di intrattenimento per il consumatore è sottile, con costi — pensiamo alle micro imprese — spesso insostenibili.
Per alcune realtà i social hanno sostituito il sito internet, per altre sono diventati uno strumento di intrattenimento, altri ancora hanno deciso di abbandonare definitivamente l’essere sui social per permettere al cliente di interpretare la marca in modo più autentico e senza condizionamenti.
Non credo che ci sia una ricetta magica, si tratta semplicemente di strategia e posizionamento e forse — proprio di queste cose — ne stiamo iniziando a sentire la mancanza: lo strumento è il mezzo, non è il fine. Essere presenti sui social è un’opportunità non è l’obiettivo.
L’obiettivo di Bottega Veneta di far vivere un’esperienza più autentica al consumatore lo ha probabilmente raggiunto proprio permettendo a questi di interpretare liberamente il brand, in modo creativo e tutto questo in linea con i valori del brand.